IN NOME DEL POPOLO ITALIANO (1971)

Regia/Director: Dino Risi
Soggetto/Subject: Agenore Incrocci [Age Incrocci], Furio Scarpelli
Sceneggiatura/Screenplay: Agenore Incrocci [Age Incrocci], Furio Scarpelli
Interpreti/Actors: Ugo Tognazzi (giudice Mariano Bonifazi), Vittorio Gassman (Lorenzo Santenocito), Yvonne Furneaux (Lavinia, la moglie), Michele Cimarosa (maresciallo Casciatelli), Ely Galleani (Silvana Lazzorini), Pietro Tordi (prof. Rivaroli), Simonetta Stefanelli ("Giugi" Santenocito), Franco Angrisano (Colombo), Renato Baldini (rag. Cerioni), Pietro Nuti (avvocato di Santenocito), Checco Durante (Pieronti, l'archivista), Maria Teresa Albani (signora Lazzorini), Enrico Ragusa (Riziero Santenocito, il padre), Edda Ferronao (cameriera di Santenocito), Franca Scagnetti (portinaia), Francesco D'Adda (Lipparini, cancelliere), Vanni Castellani (Sirio), Claudio Trionfi (giornalista TV), Franca Ridolfi (Doris, l'attrice), Gian Filippo Carcano (signor Lazzorini), Giò Stajano (Floriano Roncherini), Paolo Paoloni (primario clinica psichiatrica), Marcello Di Falco (segretario di Santenocito), Franco Magno (industriale fra i premiati), Pietro Ceccarelli (inserviente al Palazo di Giustizia)
Fotografia/Photography: Alessandro D'Eva
Musica/Music: Carlo Rustichelli
Costumi/Costume Design: Enrico Sabbatini
Scene/Scene Design: Luigi Scaccianoce
Montaggio/Editing: Alberto Gallitti
Suono/Sound: Bruno Brunacci
Produzione/Production: International Apollo Films
Distribuzione/Distribution: Fida Cinematografica
censura: 59437 del 14-12-1971

IL GIUSTO GIUDICE

E' il 1971 e non tutto va bene. L'Italia è logora: in un decennio ha trangugiato, digerito ed espulso il grande banchetto del boom economico e al tempo si guarda attorno valutando le crepe materiali e morali del periodo. Tutto pare degradarsi di ora in ora: le sedi stradali appena riattate, le strutture del vetusto Palazzo di Giustizia, le spiagge ridotte a discariche, la morale familiare in disfacimento. In questo panorama di devastazione e dispersione, si muovono, ognuno secondo i propri codici e a perseguire fini antitetici, i due personaggi di questa amara pellicola. Il primo, ingegner Santenocito, industriale impegnato nei più disparati settori, corruttore e inquinatore notorio, intoccabile e temuto, guizza come un pesce in mare aperto e riserva la propria indignazione per i capelloni sfaticati e parassiti, che arriva ad ospitare sulla sua potente Maserati Ghibli al solo fine di insultarli. Il secondo, giudice istruttore Bonifazi, dedica la propria solitaria e sobria esistenza a lottare contro tutto quanto il rampante palazzinaro rappresenta. L'incontro tra i due uomini è appunto originato da un'inchiesta, la presunta morte violenta di una studentessa che in realtà tale non è, essendo nota la sua professione di squillo d'alto livello, della quale vivono placidamente i suoi cinici e inetti genitori. Appurato che uno degli affezionati clienti della giovane è il nominato Santenocito (interpretato da Vittorio Gassman che di personaggi del genere già aveva fatto abbondante uso), che si fa beffe delle convocazioni giudiziarie, il magistrato lo fa condurre coercitivamente dai carabinieri. Imperdibile la scena dell'interrogatorio, che si tiene in una caserma dove l'ufficio istruzione è stato collocato provvisoriamente, con il convocato che, strappato ad una pacchiana festa in costume, relitto di una “dolce vita” ormai appassita da tempo, è travestito da centurione romano. Si esprime, nella commiserazione del suo inquisitore in un linguaggio che definisce “aderenziale e desemplicizzato”, quando nei fatti altro che non esprime che una farragine di pesanti luoghi comuni e ridondanze da presunto “esperto”. L'alibi che prospetta è casereccio e semplice, ma falso; il vecchio padre con cui sostiene di aver giocato a “scopetta” nella notte del delitto, non si presta a macchinazioni e per tale motivo il figlio lo fa spietatamente rinchiudere in manicomio, sebbene in possesso di ogni facoltà. Tanto basta perché il giudice decida di stringere quanto più la presa. In un incontro apparentemente casuale i due antagonisti paiono addivenire ad una comprensione dettata dalle comuni esperienze generazionali, ma l'atteggiamento aggressivo di Santenocito distrugge anche questa remota possibilità di apertura. Tenta infatti di corrompere il magistrato con la promessa di grossi donativi e persino inventa un'impossibile amicizia di infanzia, che strappa l'unico sorriso del suo inquisitore. Lo scontro è a questo punto inevitabile e l'accusato a sua volta accusa di parzialità e odio ideologico il giudice, che non ha difficoltà a confessare quanto odi tutto quanto il suo interlocutore rappresenti. L'inchiesta prosegue e la posizione del vulcanico ingegnere si complica sempre più, specie quando appare lampante come si servisse della defunta e di altre giovani avvenenti (non ancora chiamate escort come al presente) per facilitare trattative d'affari. Manca inoltre l'alibi per quella maledetta notte, ma lo si può trovare (o meglio comprare) presso un vecchio amico, industriale anch'egli, ma alle soglie della bancarotta, che volentieri si presta, inventando una improbabile cena di lavoro. A smontare tanta farsesca costruzione non ci vuole granché, basta la testimonianza di uno spaurito cameriere omosessuale e in una torrida giornata estiva, peraltro conturbata dall'imminenza di un incontro della nazionale contro l'Inghilterra, il giudice si appresta a firmare i mandati di cattura. Uscito da Palazzo di Giustizia a ora già tarda, nel vuoto di una città “chiusa per partita” e ingombra di immondizie, Bonifazi ha come unico rimedio alla sua solitudine più forte del solito, il diario della ragazza, da poco recuperato. Goccia a goccia sfilano gli amari avvenimenti delle ultime settimane: i noiosi e inconcludenti corsi di lingua, l'avidità dei genitori, un fidanzamento che poteva essere occasione di riscatto finito in nulla, le manovre del Santenocito. Tutto diventa un flash back, dove finalmente si vede agire – ma non parlare – Evy Galleani, evanescente nei piani del regista e dall'inquirente conosciuta solo attraverso queste tardive righe. E la decisione di togliersi la vita, la spiegazione degli strani lividi trovati sul corpo, non conseguenza di percosse ma postumi di un incidente stradale, l'oppiaceo assunto non per vivacizzare un'orgia, ma per chiudere la porta in faccia al mondo. Qui si palesa l'ossessione del giudice, che ha da tempo individuato e condannato il suo colpevole e le immagini del palazzinaro catturato e  tradotto in una lurida cella lo inseguono, mentre manipola il già sgualcito diario che potrebbe mutare il destino di molti. Nell'istante in cui la partita si chiude, con la vittoria chiara e sonante dell'Italia, il peggio del popolo arrembante e festante si riversa per le vie deserte fino a un attimo prima. Nel volto di ogni tifoso sfrenato e urlante, affiorano i tratti dello spietato Santenocito. È un vecchio nostalgico che brandisce un bastone, un monsignore sovreccitato, un militare minaccioso, un teppista analfabeta e persino una prostituta che ballonzola lasciva. Provvidenziale l'atto massimo di vandalismo, quando una vecchia auto inglese viene incendiata in spregio ai nemici battuti, nel cui rogo il magistrato getta il prezioso diario, scegliendo una sola delle giustizie umanamente possibili.

Si potrebbe concludere che Dino Risi abbia voluto raccontare un'altra delle sue tante storie al maschile, intrise di pessimismo, il dramma di un umano fallimento come tanti, di una incredibile ascesa che diventa d'improvviso resistibile. Qui i fallimenti sono svariati e si parte dalla solitudine dei due protagonisti, uomini potenti e temuti, ma logorati e feriti sul piano umano. L'industriale aggressivo e sprezzante, una volta rientrato a casa subisce lo snobismo intriso di turpiloquio della moglie, che gli rimprovera i trascorsi pirateschi che ne hanno fatto la fortuna e il malcelato disprezzo della figlia che non ascolta le sue sconnesse prediche e non si distoglie dalla lettura di Linus e dalla musica ascoltata in cuffia. E tuttavia, pure deluso e spregiato da una famiglia “tradizionale”, offre firme e appoggi alla campagna contro l'introduzione del divorzio e non si turba nel frequentare ambienti devianti e loschi. Non è da meno la solitudine del giudice Bonifazi, scandita da pranzi in una tetra trattoria, musica sinfonica ascoltata a basso volume e domeniche solitarie a pesca sul litorale romano; solitudine turbata dall'incursione del compagno di sua moglie da tempo separata, che si permette di bussare a quattrini, senza un minimo di ritegno. E se l'occhio del regista vuole concludere la sua narrazione intorno alla figura solitaria e dolente del Bonifazi (un Tognazzi asciutto e misurato come poche altre volte nella carriera) non è solo perché lo riconosca come agente della storia; egli è un uomo che, come nella citazione Kafkiana di Elio Petri per la sua “Indagine su una cittadino”, appartiene solo alla legge, ma che questa volta ha scelto di deviare, forse in nome delle tante ragazze senza giustizia e senza ideali che come in un'ecatombe vengono travolte e consumate dalla infernale città o forse in odio della plebe sconnessa e riottosa che come avverte Le Bon si sente strapotente e impunita solo perché gruppo. Tante litanie sui giudici iniqui sentiremo nei decenni a venire e ognuno offrirà o imporrà il proprio vibrante parere, ma se mille cose sono (o sembrano) mutate, quella decadenza di un'Italia che si screpola e si disunisce si è acuita e aggravata.


Recensione a cura di: Alberto Piccini

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