QUELLA VILLA ACCANTO AL CIMITERO (1981)


Regia/Director: Lucio Fulci
Soggetto/Subject: Elisa Livia Briganti
Sceneggiatura/Screenplay: Dardano Sacchetti, Giorgio Mariuzzo, Lucio Fulci
Interpreti/Actors: Katherine MacColl [Catriona] (Lucy), Paolo Malco (prof. Norman Boyle), Giovanni Frezza (Bob, bambino), Ania Pieroni, Silvia Collatina, Dagmar Lassander (Laura Gittelson), Giovanni De Nava (Freudstein), Lucio Fulci, Daniela Doria, Gianpaolo Saccarola, Carlo De Mejo, John Olson, Elmer Johnson, Ranieri Ferrara, Teresa Rossi Passante
Fotografia/Photography: Sergio Salviati
Musica/Music: Walter Rizzati
Costumi/Costume Design: Massimo Lentini
Scene/Scene Design: Massimo Lentini
Montaggio/Editing: Vincenzo Tomassi
Suono/Sound: Ugo Celani
Produzione/Production: Fulvia Film
Distribuzione/Distribution: Medusa Distribuzione
censura: 76953 del 14-08-1981
Altri titoli: The House by the Cemetery, La maison près du cimetière, Das Haus an der Friedhofsmauer, Aquella casa al lado del cemetiero

Con il terzo capitolo della cosiddetta “trilogia della morte”, Fulci rende ancora una volta onore alla definizione della critica francese che per lui scelse il termine lusinghiero, anche se apparentemente contraddittorio, di “poeta del macabro”. Il potere evocativo del titolo del film è noto a tutti gli appassionati del genere ed ha portato al suo “sfruttamento” sia nel settore cinematografico che televisivo, basti pensare al film di Giuliano Carnimeo “Quella villa in fondo al parco” o ai titoli con cui vennero ribattezzate alcune pellicole straniere (come il “Brutes and Savage” di Hooper che divenne “Quel motel vicino alla palude”), oppure al divertente episodio di “I ragazzi della terza C” in cui Chicco, Bruno & Company si improvvisano registi di un film horror (dal titolo “Quella scuola accanto al cimitero”).
Ma altamente evocativa è pure l’atmosfera autunnale, triste e malinconica che si respira nel film di Fulci, splendidamente commentata dalle musiche di Walter Rizzati, che privilegiano accenti meno solenni di quelli presenti nelle musiche delle due opere precedenti, ma più avvolgenti e quasi “romantici”. Anche in questo film lo splatter è presente, meno frequente e invasivo, ma sicuramente sconvolgente e di grande impatto: la scena iniziale, con l’omicidio della vittima per antonomasia del cinema di Fulci, Daniela Doria, è uno shock visivo che sarà più volte omaggiato da altri registi di film horror, così come l’esecuzione della Lassander, con il particolare dell’attizzatoio che preme sulla giugulare prima di perforarla, e che costringe lo spettatore a provare un disagio molto “fisico”. Altrettanto efficace è la decapitazione di Ania Pieroni in cantina, già preconizzata dalla piccola Mae/Silvia Collatina all’inizio del film, resa più impressionante dallo sgorgare di un sangue quasi nero e dalla successiva scena in cui, secondo schemi più classici, la testa recisa rotola dalle scale di fronte agli occhi di Bob/Giovanni Frezza. Ma il fulcro centrale del film sembra essere l’infanzia, con i suoi aspetti oscuri, alieni agli adulti, che sembrano tracciare un confine netto tra il mondo dei grandi e quello dei bambini. Fin dall’inizio il regista sceglie di presentarci il piccolo Bob, quasi in trance e in collegamento telepatico con la bambina della fotografia, “staccato” e “separato” dalla madre da una serie di fuori fuoco alternati che sanciscono l’incomunicabilità tra i due personaggi. La Lucy impersonata da Catriona MacColl viene raffigurata come una madre più ansiosa e distratta che affettuosa, probabilmente sotto cura per qualche forma di depressione (come viene lasciato intuire dalla presenza delle medicine che le vengono somministrate) e spesso passiva di fronte ai macabri eventi: indicativa a questo proposito è l’immobilità che assume, pur gridando istericamente, di fronte ai sinistri rumori che echeggiano nella casa, oppure quando non dimostra alcun turbamento di fronte alla baby sitter che pulisce le vistose tracce di sangue lasciate da un omicidio. Il comportamento di Norman, il padre di Bob (dal nome già poco rassicurante, che rievoca l’omonimo protagonista di “Psycho”), è invece estremamente ambiguo, e suscita nello spettatore più di un sospetto, al punto da associarlo in più di una occasione al collega impazzito che ha sostituito o allo stesso Dr. Freudstein, il celebre “mostro” di questo film. Fulci costella infatti il film di piccoli particolari “perturbanti” che gettano ombre sul suo ruolo di perfetto pater familias: sembra che sia già stato in precedenza in luoghi che nega di aver visitato, e oltretutto il regista “frustra” la voglia di sapere dello spettatore non dando alcun elemento, nemmeno alla fine della pellicola, che giustifichi le occhiate furtive (come al solito enfatizzate dai primi piani degli occhi nel riconoscibile stile di Fulci) tra lui e la baby sitter, o il fatto che, quando quest’ultima “libera” Freudstein togliendo le assi di legno che bloccano la porta della cantina, si limiti a guardarla senza chiedere alcuna spiegazione. Una madre confusa, un padre che sembra nascondere qualcosa: ci sono già gli elementi per far “desiderare” a Bob, forse inconsciamente, di “rifarsi una famiglia”, che troverà, paradossalmente, in una bambina fantasma ed in un’anziana signora d’altri tempi, unite dalla missione di sottrarre nuove vittime ad un padre/marito mostro, che infine lo “adotteranno”, trasportandolo in una sorta di limbo fuori dal tempo e dallo spazio. Le “affinità elettive” tra Bob e Mae ed il legame che si instaura tra loro sono evidenti sia dalla loro comunicazione non verbale (nella sequenza iniziale a casa del bambino davanti alla fotografia nella quale appare Mae, ma anche nella conversazione “a distanza” sui lati opposti e lontani di una strada), sia dalla condivisione di una innocenza che talvolta appare anche come una sorta di “diversità” e che giustificherebbe la frase finale, attribuita all’autore del “Giro di vite” (splendido romanzo sugli aspetti talvolta sottilmente perversi della mente dei fanciulli) sul mistero indecifrabile della nostra incapacità di capire se i bambini sono dei mostri o i mostri dei bambini. Ampliando ulteriormente la lezione di Mario Bava, Fulci ci rende partecipi della sottile e spesso inquietante differenza tra il gioco/simulazione e la realtà percepita (tematica che affronterà anche in “Manhattan baby”) con i labili confini che permettono a Bob di scendere dapprima in cantina fiero con la sua pistola imitando l’atteggiamento di un eroe coraggioso per poi poco dopo piangere disperato invocando la mamma, o che disorientano ulteriormente lo spettatore quando il ragazzino corre apparentemente terrorizzato inseguito da qualcuno per poi “svelare” che si è trattato solamente di un gioco e che l’inseguitrice è Mae. Questa ambiguità di fondo sembra sfociare dunque, a suggello del film, in una nuova “nascita” (la fuoriuscita attraverso la crepa della pietra tombale, come se Bob venisse “partorito” nuovamente) o forse in una “fuga dalla realtà” che per compiersi ha dovuto sacrificare la famiglia “inadatta” al Mostro. Un Mostro molto particolare, entrato nell’immaginario collettivo di ogni fan del cinema horror: volto quasi insettiforme e casacca che cela la putredine e la decomposizione, ma arti minuti e voce lamentosa che è quella della sue giovani vittime; quindi, a conferma della citazione di James, un Mostro un po’ bambino. Il Dr. Jacob Freudstein verrà omaggiato in tempi recenti perfino dal celebrato regista “à la mode” Rob Zombie nel suo “La casa dei 1000 corpi”, ma assumerà il più banale nome di Dr. Satana. Nel nostro cinema di genere e da parte dei suoi estimatori il chirurgo radiato dall’albo dei medici del film di Fulci verrà invece ricordato con questa bizzarra fusione di due nomi “importanti”: quello del protagonista del romanzo di Mary Shelley, e per esteso della sua Creatura, composta da parti di cadaveri a testimonianza della volontà dell’uomo di essere immortale con le conseguenze punitive del caso (ancora più funeste nel film che stiamo considerando) e quello del padre della psicanalisi, nei cui metodi lo stesso regista di “Quella villa accanto al cimitero” pare non credesse molto… tanto da utilizzare in seguito addirittura come assassino di un suo film (“Un gatto nel cervello”) un suo epigono. Non sappiamo con certezza se il nome di Freud venne affiancato a quello di Frankenstein per scherno, ma possiamo dire che in questo film qualche spunto “freudiano” o psicanalitico è ben presente. E unito alla consueta maestria della messa in scena, alle atmosfere claustrofobiche, all’estrema adeguatezza di tutti gli interpreti, ed anche - perché no? - alle occasioni di “divertimento” offerte all’appassionato di splatter, contribuisce anch’esso a fare di questo film qualcosa di più di un “semplice” horror. Un film godibilissimo nel suo enigmatico “insieme”, ma che per essere ulteriormente apprezzato necessita anche di essere un po’ “sezionato”, come i “cimeli” del dr. Freudstein celati in quella cantina che sembra così piccola ma in realtà è così grande… e piena di sorprese.

Recensione a cura di:
contatori visite

Commenti