IL POTERE DELL’IMMAGINE di Roberto Carlo Deri ( 9 maggio 2014)




I significati sono quelli che sempre sfuggono alle interpretazioni comuni, spesso anche a quelle colte. Come la ricerca di un simbolismo veicolante o veicolato che rimanda troppo facilmente ad analisi psicoanalitiche, laddove la dimensione dell’inconscio diviene il reame incontrastato di ogni emanazione psichica, di ogni moto umano, anche nelle semplici azioni quotidiane. Risulta quindi difficile stabilire quando una realtà artistica si forgi su quel determinato valore simbolico e ne divenga propagatrice, oppure quando il simbolo come emblema rappresentativo assoluto venga aprioristicamente ricercato in  un lavoro critico spesso lontano dalle reali intenzioni dell’autore.
Vi sono talora opere costruite attorno a determinati valori; altre volte l’analisi a posteriori può rivelarsi opportuna poiché non è raro che un film e un libro acquistino una vita propria, si sviluppino cioè, nel loro corso al di là delle intenzioni preordinate dal loro creatore.
Sorge allora spontanea la domanda cosa sia il cinema, questa settima, ed ottava arte che si destreggia fra rotoli di celluloide, materia deperibile, amata ed osannata da artisti e nostalgici, e sul sempre più emergente e quasi indistruttibile “digitale”, asetticamente e piattamente più nitido, maggiormente facile all’uso e duttile per gli effetti special, sostenuto dai più giovani e dai produttori per i costi incredibilmente più contenuti.

“Il cinema è l’arte rappresentativa per immagini. Ed è essenzialmente forma, seppur estetizzante”.
La sua funzione non è quella di essere privo di contenuti in quanto il valore contenutistico è ciò che può rendere un’opera unica, qualcosa di più di un racconto per immagini sino a trasformarla, qualche volta, in un capolavoro, mai avulsa, però, dalla sua realtà originaria: arte rappresentativa per immagini e, in quanto tale, fondamentalmente formale.
Trattare di forma in questo senso riguarda un’idea ben lontana dalla concettualizzazione di formalismo o del tanto abusato termine dell’”apparire”, ma di una costruzione, un insieme di elementi che possono essere paragonati alla sintassi, all’ortografia e ai processi logico-espressivi della scrittura, in questo ambito l’uso della luce, regno della difficile e poco celebrata professione del Direttore della fotografia, la scenografia, l’uso e lo sviluppo degli effetti speciali, i costumi e l’abile miscellanea di tanti elementi sino a farli confluire come fossero un tutt’uno operato dal regista che, come un tempo, dovrebbe essere sempre il vero autore di un film.

Ecco, si potrebbe ancora affermare…
“Il cinema è un mezzo rappresentativo della realtà e della fantasia che può assumere una dimensione di vita propria”. Già…. il cinema, come la scrittura rappresenta, può rappresentare la realtà attraverso un processo di mediazione espressiva soggettiva perché ciò che lo spettatore guarda non sarà mai una forma di realtà speculare dato che qualsiasi intervento umano, anche nell’esperimento scientifico, influenza l’oggetto-soggetto dell’osservazione e il contesto in esame, modificando l’interazione e il risultato finale e dimostrando l’impossibilità di un’oggettività assoluta tanto agognata quanto irrealizzabile. Inoltre quel che viene rappresentato è sempre filtrato da chi opera risultando allora  diverso dall’osservazione personale.
Molto spesso, poi, una creazione, un lavoro, un’opera sia essa la scrittura di un libro, una composizione musicale, la costruzione di un film o lo sviluppo di una teoria fisica o di genetica, possono assumere esiti imprevedibili che formano un’essenza consistente, una forma complessa che sembra assumere come una vita propria, un qualcosa che si espande al di là del progetto iniziale del suo o dei suoi demiurghi. Nulla vive tutto questo più di un film.
                       

Che cosa è allora il cinema?, si chiederanno ancora in molti. Rispondere per aforismi potrebbe riempire un volume intero.
Si potrebbe ancora dire: ”Il cinema è l’arte visuale per immagini in movimento trasmesse attraverso determinate apparecchiature”.
Un po’ limitativo, troppo tecnico, forse.
Personalmente affermerei: ”Il cinema è la capacità di suscitare emozioni”.
Il mondo della celluloide racchiude in sé, o può comprendere la totalità delle espressioni creative dell’essere umano, dalla letteratura ai fumetti, dalla musica alla fotografia, dalla rappresentazione della realtà alla trasposizione di essa, e quindi realtà, fantasia e metafisica possono stagliarsi nettamente su di uno schermo cinematografico o intersecarsi, defluire l’una nell’altra con confini talora netti, talora sfumati o dilatati, spesso impalpabili. E continuando cinema nel cinema, teatro nel cinema perché la parola, magica espressione primaria della recitazione, è creazione teatrale già in un’epoca che affonda le sue radici prima della nascita di Gesù Cristo.
In questa dimensione in cui nulla si contrappone, ma tutto ne fa parte, sorge la più grande capacità di questa fabbrica di sogni: quella di suscitare emozioni, di far nascere suggestioni e di svilupparle agendo non sulla razionalità intellettiva ma traendole dal suo sentire più nascosto, più primordiale, attraverso il primo stimolo sensoriale dell’uomo, quello visivo.
Ecco il potere dell’immagine.
Questa capacità di suscitare e creare emozioni non è sempre prerogativa del cinema di “serie a”, di quello colto; senza nulla togliere ai veri capolavori e contrariamente a quella scuola critica sostenitrice di come il contenuto soltanto sia importante in un film e che la recitazione, la fotografia e le altre componenti siano marginali. Ovviamente ben vengano pellicole dagli ottimi contenuti, ma ricordando che il cinema è essenzialmente immagine, estetica e che la fabbrica dei sogni maggiormente creatrice di emozioni e atmosfere è stata spesso parte integrante del cosiddetto cinema di “serie B”.
Il fine prioritario del cinema diviene allora quello di generare un continuo flusso di emozioni, suggestioni.
Nell’impossibilità di poter esporre in questo spazio limitato anche soltanto le linee essenziali, tenterò di addentrarmi in un breve viaggio per cogliere alcuni momenti e opere salienti di tale “magico” mondo fatto di emozioni, di sogni, di contenuti, di riflessioni, di idee, di ricordi, di viaggi interiori verso altri universi.

È esistito un momento durante il quale senza neppure parlare di arte, d’impegno, d’intellettualismo o di prodotti commerciali, il cinema in Italia più che in qualsiasi altra parte del mondo ha raggiunto un qualcosa difficilmente esprimibile che sicuramente può essere primariamente racchiuso in questa affermazione: ha emanato “magia”!
Con tale termine intendo riferirmi a quel sentimento si suggestione da glamour elfico che s’impadronisce di noi durante la visione di un film, quel senso di spaesamento che sempre meno ci prende quando si esce dal buio e dal silenzio di una sala cinematografica, quel “risucchio” psichico nello schermo tale da farci immedesimare con i personaggi anche meno amati, sorprendendoci nel ritrovarci coinvolti finanche nei generi meno amati, sin quasi, a interagire con essi e a stimolare un irrefrenabile desiderio di saltare dentro lo schermo sperando che sia una soglia ultra-dimensionale.
Diversamente dal cinema Hollywoodiano questo momento epocale ha contenuto in sé un connubio totale con la vita del popolo, come le maestranze locali che per anni hanno vissuto per e grazie al cinema, falegnami, carpentieri, fabbri, maniscalchi, sarte, pastori e bovari per l’affitto di animali, nomadi e contadini con i loro cavalli, fantini, meccanici, artisti di ogni genere, sportivi, acrobati e circensi, fusti belli e muscolosi, caratteristi di ogni tipologia fisica ed età, professori come consulenti, avvocati, e ancora braccianti, scaricatori e manovali che negli anni Cinquanta guadagnavano la paga giornaliera più bassa: diecimila lire! Bastava dire una battuta e si era inquadrati come attori generici e la paga saliva ad almeno trentamila lire al giorno.
La caratteristica più particolare di questo periodo è che non esistevano barriere e  la gente poteva assistere ad una scena di Maciste a cavallo nella campagna romana partecipando ed acclamando, unendosi poi nelle pause alla troupe, alle famiglie delle centinaia di comparse chiamate per ogni film, per pranzare assieme, spesso usufruendo di un surplus di cestini offerti dalla produzione o meglio da Cinecittà. Ho “parlato” di Italia, ma è in particolare tutto quel mondo, gravitato intorno agli studi cinematografici di Roma e al quartiere omonimo dal secondo dopo guerra sino agli anni Settanta, il protagonista del momento epocale a cui si faceva precedentemente riferimento.
Ma prima ancora delle centinaia e centinaia di pellicole a carattere popolare (soltanto i western all’italiana, i cosiddetti western-spaghetti, sono oltre quattrocento) vi è stato un periodo di alto livello culturale che ha generato alcuni fra i maggiori capolavori della cinematografia mondiale. Anni dove la rappresentazione del sociale anche più triste e dimenticato esprimeva un’atmosfera di speranza, un’energia semplice ma costante ben lontana dallo squallore urbano e interiore che permeerà tutto il cinema a carattere sociale dell’ultimo trentennio: Il Neorealismo.
Come già affermato occorrerebbe una trattazione più estesa e consona a questo grande momento artistico, scrivendo però di “anima del cinema” seppure molto brevemente non posso esimermi dal citare almeno le opere e gli elementi essenziali di tale periodo.

Quel che viene definito “Neorealismo” cinematografico italiano trae le sue ispirazioni, tramutate poi in semi germoglianti, in vari momenti e films del periodo fascista e bellico.
In quegli anni alcuni registi formatisi sui documentari pensarono di narrare storie ove fossero evidenziati i fattori della quotidianità, gli aspetti tristi e mediocri della realtà, allora, purtroppo, ancor imbrigliata nel condizionamento propagandista del regime totalitario fascista.
Con la fine della guerra la maggiore libertà permise il nascere di un movimento che nonostante le differenze stilistiche fra gli autori e i registi, si può definire il più unitario della storia del cinema, ricorda G. Rondolino.
Il manifesto di questo fervido momento non può che essere Paisà diretto nel 1946 da Roberto Rossellini. Malgrado le difficoltà economiche ed il disastro tecnologico in cui versava l’Italia, l’austerità stilistica e il ricercare spesso attori presi dalla strada, fu maggiormente un’ esigenza idealistica e di “un’arte della strada” che un obbligo economico. Esemplare tale stile nel La terra trema nel 1948 di Luchino Visconti, (capolavoro prima parte di una trilogia mai completata sulla vita dei pescatori siciliani, un “Malavoglia” cinematografico di un livello altissimo) e in particolare in tutto il cinema di Pier Paolo Pasolini. Da ricordare che fu recitata nel dialetto originale siciliano del posto, tanto da rendere necessario porre i sottotitoli in italiano.

Ricorderà molti anni più tardi Roberto Rossellini: ”Nel 1944, subito dopo la guerra, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa. Quasi tutti i produttori erano spariti. Qua e là fiorivano alcuni tentativi ma le ambizioni erano estremamente limitate. Si poteva godere di una immensa libertà, l’assenza di un’industria organizzata favoriva le iniziative più eccezionali. Qualsiasi progetto andava bene. Fu questo stato di cose a permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale;…”.

Il contesto culturale e sociale favorì il nascere del Neorealismo. Accanto alle opere del citato maestro, da Roma, città aperta con una magnifica interpretazione drammatica di Aldo Fabrizi, a Germania anno 0 (1947), Francesco giullare di Dio (1949), liberamente tratto da “I fioretti di San Francesco”, fino a giungere a Stromboli terra di Dio del 1949, Cartesius (1974) e Il Messia del 1976, troviamo commedie che seppur con tono più “leggero” mantengono fede al pensiero di base neorealista.
Il fulcro, principalmente degli autori “più impegnati”, è l’apparente appiattimento formale della narrazione e l’assenza di scene spettacolarmente drammatiche che permettono il forte approfondimento dell’indagine della realtà rappresentata.
Fra le commedie è doveroso ricordare quelle di Gennaro Righelli e Carlo Ludovico Bragaglia, i films romantici ed i melodrammi di appendice di Mario Mattoli, Duilio Coletti, Riccardo Freda e Camillo Mastrocinque.  Freda e Mastrocinque dopo gli esordi storici sconfineranno nell’avventura e nei generi italiani definiti di “serie b” per eccellenza, mentre Vittorio Cottafavi e Raffaello Matarazzo dal cinema popolare giungeranno negli anni Cinquanta e Sessanta nell’alveo del cinema storico-mitologico e drammatico-
sentimentale riuscendo ad infondere anche nella semplicità delle trame, arte, professionalità e valori.
Fra i geni indiscussi del Neorealismo e del cinema mondiale si ricorda Vittorio De Sica di cui evidenziamo Sciuscià del 1946 dove, oltre all’osservazione comprensiva della sofferenza umana, emerge un’accusa sociale al lavoro minorile. La poetica di De Sica raggiunge però l’apice con Ladri di biciclette e Umberto D., rispettivamente del 1948 e 1949.
Un discorso a parte merita Cesare Zavattini meno conosciuto ed apprezzato all’estero ma significativo per la sua “teoria del pedinamento del personaggio” tesa a cogliere anche gli aspetti più minuti della vita.
Questo cinema-verita, come fu anche definito, subisce un’evoluzione con L’eccezionale lavoro di Luchino Visconti che già all’uscita nel 1943 di Ossessione fu giudicato autore di un cinema antropomorfo per la sua capacità estetica e morale di saper rappresentare ambienti sociali e familiari utilizzando un’analisi socio-antropologica e pervenendo a operare una psicoanalisi dell’individuo perennemente sospeso fra drammi, virtù, sofferenze, capacità e aberrazioni. Profondi e sinceri per quanto complessi Senso del 1954, Bellissima del1951 con una strepitosa Anna Magnani e poi Rocco ed i suoi fratelli nel 1960, La caduta degli Dei nel 1969, in una sublimazione maggiore Il Gattopardo (1963) e Morte a Venezia (1971) dove la sua arte raffinatissima lo portò a ricercare attori fra i massimi talenti al mondo, fra i quali Burt Lancaster, Alan Delon e il sottovalutato e dimenticato Helmut Berger per Gruppo di famiglia in un interno del 1974, dramma borghese sull’incomunicabilità e il disfacimento morale della famiglia, della società e dei singoli esseri umani.
Il ritorno al Romanzo Popolare con Alberto Lattuada, Renato Castellani e una decina di altri registi segnò la coniugazione dell’ingenuità con l’analisi della realtà. Ad esempio Riso amaro di Dino Risi interpretato nel 1949 da Silvana Mangano e più tardi Italiani brava gente diretto nel 1964 da Giuseppe De Sanctis.
Senza trascurare Carlo Lizzani, Luigi Comencini, Luciano Emmer, Antonio Pietrangeli e Mario Monicelli, c’è una particolarità, un braccio quasi dimenticato del Neorealismo: quel cinema popolare che avuto i suoi maestri soprattutto in Vittorio Cottafavi e Raffaello Matarazzo negli anni Cinquanta e Sessanta e che fu definito storico-mitologico o Peplum, dal peplo, l’abito a tunica dell’antica Grecia.  Con film quali Messalina del 1951, La rivolta dei gladiatori nel1958, Le legioni di Cleopatra del 1960, La vendetta di Ercole dello stesso anno e molti altri, la lotta fra il bene ed il male offrì riferimenti sociali e politici contemporanei, concedendo agli autori la possibilità di esprimere una poetica dei sentimenti che dava attenzione alle radici storiche greche e latine con attenzione ed esatta ricostruzione delle ambientazioni e delle atmosfere, e dove l’eroe fortissimo lottava con i suoi muscoli possenti per la costruzione di una società giusta, pacifica e  perché no, bucolica, senza utopie e forse riuscendo a evitare troppe esasperazioni forzatamente intellettualistiche.

Io lotto perché costretto da un mondo iniquo e per edificarne uno migliore. Se mi tirassi in disparte rimanendo a guardare, il male dilagherebbe in ogni luogo.

Nonostante le critiche “ben pensanti” di una certa cultura forzatamente rivoluzionaria, il cinema italiano ha saputo coniugare impegno d’autore e intrattenimento. Molto poco quello degli ultimi anni.
Si può affermare sia riuscito a comprendere le prospettive principali e cioè le dimensioni storiche economiche e sociali. In Italia la cinematografia nasce nel 1905 a Torino con la casa di produzione Ambrosio. L’anno successivo è la volta di Roma con la Cines.  La nostra cinematografia nasce su imitazione, o meglio dietro ispirazione del cinema francese. Da noi mancano professionisti del settore e quindi queste nuove società li cercano in Francia. Se in Italia c’è carenza di personale e di risorse finanziarie emergono al contempo creatività e spunti innovativi, tanto che nel nostro paese si apriranno molte sale permanenti mentre in altre nazioni europee ci saranno sino a tutti gli anni Trenta “spettacoli filmici itineranti” e “schermi temporanei”.
In Italia il cinema viene riconosciuto come forma d’arte prima che in altri stati. Dai primi lungometraggi che superavano i quindici minuti, la durata del singolo rullo di pellicola, come Gli ultimi giorni di Pompei prodotto nel 1908 dalla Ambrosio, a La caduta di Troia di Giovanni Pastrone del 1910, per giungere nel 1913 al  Quo Vadis di Enrico Guazzetti e raggiungere il culmine con  Cabiria , ancora di Pastrone, nel 1914, che inaugura la figura del forzuto Maciste che alcuni decenni dopo costituirà parte integrante del filone del Peplum. Genere che avrà il suo inizio ufficiale con l’ottimo Le fatiche di Ercole diretto da Pietro Francisi nel 1957 e interpretato dal culturista Steve Reeves, bello ed elegante e soprattutto buon attore. (Celebre l’aneddoto della sua permanenza a Roma per le riprese del film quando, giunto alla salita del quartiere Quadraro a bordo di una Fiat 600 e costretto a fermarsi per un guasto presunto o reale, legherà una catena alla autovettura e, a torso nudo, la trainerà sotto gli occhi esterrefatti ed ammirati degli abitanti della popolare zona).
Non si può parlare di cinema senza quel piccolo reame incantato che fu Cinecittà, come accennato in precedenza. (Fu, perché negli anni Ottanta un bieco ed ottuso progetto aziendale riuscì a distruggere un fitto bosco secolare, il grande villaggio western, castelli, la nave di Fellini, la casetta di Biancaneve e quant’altro a favore di palazzi in vetro per banche, aziende varie ed un centro commerciale). Cinecittà… luogo non solo polo e centro tecnico di produzione ma sostegno dell’intero progetto cinematografico dell’Italia, con il supporto dell’Istituto Luce e del Centro Sperimentale di Cinematografia.
Gli stabilimenti vedono posta la prima pietra il 26 Gennaio del 1936 e l’inaugurazione ufficiale fu celebrata da Benito Mussolini in persona nel 1937. L’ideazione fu di Luigi Freddi, capo della Direzione Generale per la Cinematografia di allora.
Inizialmente la struttura sorgeva su 600.000 metri quadrati, comprendendo settanta edifici con sedici teatri di posa. 40.000 metri quadrati di strade e piazze e 35.000 metri quadrati di giardini. All’interno di quest’ area, circondata da un muro perimetrale alto poco più di due metri, sono stati girati oltre tremila films, ottantadue hanno avuto la nomination all’Oscar e quarantatesette di questi hanno ottenuto l’ambito premio.
Ma rispetto a Hollywood, sebbene le dimensioni minori, la povertà dei materiali, l’essere adiacente agli albori di un quartiere molto popolare, circondata da campagna ove pascolavano pecore e da baracche di “borgatani” intorno ad una marana che fu prosciugata soltanto nel 1979, cosa l’ha resa così famosa da rivaleggiare con una simile sorella maggiore? Hollywood con i suoi milioni di metri quadrati e un potere economico infinitamente superiore? Il  Glamour, quel senso di magico estasiamento che coglieva al suo interno trasformando ogni visitatore in cow-boy, gladiatore o cavaliere di re Artù fino a quel triste giorno quando le ruspe distrussero non soltanto alberi e elaborazioni artistico-artigianali ma l’anima di un luogo al di fuori dal tempo e l’anima di un quartiere che aveva vissuto  ed era stato sfamato per decenni grazie ai generi cinematografici tanto denigrati, il cinema di “serie b”, appunto, di Cinecittà.

Abbiamo compito insieme un rapido attraverso spazio, tempo e una memoria storica profonda, un percorso all’interno non soltanto della storia e fenomenologia del cinema ma che sviscera una visione sociale e antropologica di tale arte, la realtà da essa rappresentata, il mondo a noi contemporaneo e quello trascorso ma mai perduto. “Nulla è mai perduto per sempre”; e come affermava un grande storico e filosofo europeo: “Il passato non è mai passato. Anzi è sempre presente”. Ed io mi permetto di aggiungere: “Noi siamo passato e futuro perché è l’attimo fuggevole del presente la maggiore inconsistenza temporale”.
Il cinema può permettere di analizzare la società utilizzandolo come una metodologia, una chiave di accesso.
La sua completezza, la sua permeabilità e la sua originaria formazione atte ad accogliere qualsiasi apporto esterno, rende possibile la debordazione oltre la linea di confine e lo sfociare al suo interno di numerose altre discipline, in particolare l’antropologia, prioritaria, fra le scienze umane, per la sua capacità interpretativa di ogni manifestazione umana.
Per affrontare questo terreno di contaminazioni intellettuali, letterarie, artistiche e scientifiche, non è più sufficiente operare una critica e neppure un’analisi ma si rende necessaria un’esplorazione di questo variegato, complesso, affascinante universo multi-dimensionale
Che cosa è il cinema?
Tutto questo e molto di più.

Recensione a cura di:

MINI BIOGRAFIA

Roberto C. Deri è antropologo ed etnologo. Si è laureato con lode alla Università La Sapienza di Roma in antropologia culturale con una tesi sperimentale in antropologia medica.
Fra le molte attività svolte si è occupato professionalmente per alcuni anni di cinema e teatro con diversi ruoli.
Ha scritto e collaborato con vari periodici, in relazione a tematiche di “misteri” e di cinema, fra i quali Mystero, Nocturno Cinema e Cammin di nostra vita.
Ha tenuto seminari e convegni su tali argomenti ed è stato docente alla Scuola cinema della Regione Lazio e all’università Fenacom-Cinquanta e Più.
Attualmente docente di lettere, è impegnato nella scrittura  e come ricercatore indipendente.


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