SHOCK (1977) di Mario Bava - recensione del film

Shock - 1977 - Mario Bava
“Shock” (titolo esteso, con effetto ridondante: Transfert-Suspence-Hypnos): l’ultimo film di Bava (se si esclude il lavoro televisivo per la serie “I giochi del diavolo”), questa volta quello più sottovalutato, quello “girato anche dal figlio Lamberto”, quello frettolosamente liquidato come una concessione del regista alla moda degli horror-thriller psicologici del periodo, il suo “canto del cigno”. Eppure, anche se “Al 33 di via Orologio fa sempre freddo”, come recita il titolo di lavorazione, gli appassionati del genere ancora una volta potranno “scaldarsi” il cuore pur rabbrividendo… ritrovando, grazie a questo regista, gli elementi, filtrati attraverso un’attenzione particolare all’aspetto psicologico, di un buon film horror con alcune “trovate” decisamente interessanti e originali. L’attrice Daria Nicolodi, già apprezzata “dark lady” del nostro cinema di genere, si cimenta forse con la parte più impegnativa della sua carriera e con molta misura (che sfocia comunque nel necessario “overacting” finale) interpreta il ruolo della fragile Dora, figura femminile “sull’orlo di una crisi di nervi”, destinata ad accogliere come ospite indesiderata nella sua vita la follia.
Ma partiamo dall’inizio. Storie di tutti i giorni, in fondo: un trasloco, i problemi connessi al cambiamento e quelli affettivi tra le persone che condivideranno con la protagonista una nuova esistenza, il compagno Bruno (interpretato da un interessante “volto” noto “prestato” al nostro cinema: John Steiner, qui figura insolitamente rassicurante… ma con qualche ombra) ed il figlioletto Marco, avuto da un precedente matrimonio (David Colin Jr., visto in “Chi sei?” di Assonitis) e tipico ragazzino alla ricerca di una figura paterna mancante (il padre è scomparso in mare, probabilmente è morto). Ma la nenia iniziale che lo spettatore ascolta in sottofondo mentre la macchina da presa si aggira in cantina (che, come tutte le cantine presenti in questo tipo di film, è pronta a “generare mostri”, sia effettivi che dell’inconscio), non lascia presagire nulla di buono… e infatti attraverso il figlio si manifesterà lo spirito del padre, in cerca di nemesi per un delitto avvenuto nel passato e legato alla dipendenza dalla droga (rievocata da una suggestiva visione che sostituisce i riflessi di un tramonto a quelli inquietanti di un liquido ambrato contenuto in una siringa). La
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discesa negli inferi della pazzia di Dora, con il ritorno al passato e la rivelazione del “rimosso”, si compie con un progressivo aggiungersi di piccoli e inquietanti “segnali”: da un lato, quelli che porterebbero a pensare ai consueti problemi del bambino con la figura sostitutiva del padre e ad una sorta di complesso edipico nei confronti della madre (gelosie, aggressività, scherzi per attirare l’attenzione, impulsi sessuali latenti) o a semplici incidenti (la tapparella che rischia di abbattersi su Dora); dall’altro, le invasioni, nella realtà, di “allucinazioni” sempre più frequenti. Queste ultime sono la parte più interessante del film e coinvolgono oggetti di uso comune in un “animismo” che li vede prendere vita (un taglierino che volteggia nell’aria, un pianoforte “dai tasti che ridono”, una mano di ceramica semovente che anticipa l’ossessione per questo arto che attraversa tutto il film e che attraverserà il successivo “La Venere d’Ille”), oppure trasformarsi in qualcosa d’altro (un rastrello che diventa una mano che ghermisce la caviglia della donna). Molto d’effetto anche la scena in cui alcune macchie di sangue si rivelano petali di rosa, caduti da un mazzo di fiori prematuramente avvizzito (apparentemente inviato dal coniuge morto) e che rimandano al marciume ed alla decomposizione che caratterizzeranno le apparizioni del fantasma (la cui mano, stretta in sogno da quella di Dora durante un sonno agitato, letteralmente si “frantuma”). Con molta originalità, Bava ci rende partecipe anche di curiose allucinazioni “uditive”, facendo risultare inquietante il rumore di un rasoio elettrico oppure trasformando il suono metallico di una molla che scende le scale (molla estratta dal ventre di un pupazzo in un groviglio di spessi fili di lana rossa simili a viscere) in un pianto infantile che sembra invocare la mamma. In un altro caso, invece, l’effetto straniante è ottenuto trasgredendo le regole della forza di gravità, con i capelli della donna che si sollevano magicamente durante il “sogno” dell’amplesso con lo spettro. Il campionario di bizzarre allucinazioni lascia progressivamente il posto alla “rivelazione finale”, che ad alcuni critici è sembrata
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debitrice del film di Dario Argento “Profondo rosso”: anche qui un disegno infantile, anche qui un muro che cela l’orrore. Ma entrambi in questo caso non sono solo indizi o mere prove di colpevolezza che servono agli improvvisati investigatori per aggiungere un tassello in più alla conoscenza della mente perversa dell’assassino, ma deflagranti “vasi di Pandora” che inchiodano Dora a se stessa e alle proprie responsabilità, mettendola di fronte ai fantasmi della propria mente e rendendola tragicamente consapevole di ciò che ha sepolto nell’inconscio. Questa funzione è dunque assolta sia dal disegno che dall’abbattimento del muro in cantina (i cui mattoni compaiono anche negli incubi di Dora come sigilli claustrofobici che sbarrano una finestra), al quale segue una bella soggettiva fissa dall’apertura del nascondiglio rivelatore che incornicia l’esterno e che suggerisce, oltre al cadavere che non vediamo, una presenza misteriosa che osserva ed ascolta, incombente sui due protagonisti della scena, e che li circonda in una morsa che presto si rivelerà fatale. L’ambiguità e la possibilità di una doppia lettura del film si fanno ancora più palesi nel “colpo di coda” finale: se lo spettatore ha la certezza, in un certo senso consolatoria, che con l’atto finale compiuto da Dora la mano che mette la parola “fine” alla cupa vicenda non è quella di un fantasma, Bava rimescola le carte in tavola e ci mostra una sedia che si sposta e un’altalena che oscilla da sola. E conclude così con il ritratto di una famiglia riunita “alternativa”, formata da due elementi in fondo piuttosto “simili”: uno spettro (forse), e un bambino che, come Bava ci ha ricordato in altri suoi film come “Reazione a catena” o “Gli orrori del castello di Norimberga”, si rivela l’interlocutore privilegiato del soprannaturale e per il quale la morte può anche rappresentare un nuovo tipo di “gioco”. Consapevole o inconsapevole dell’orrore? Non ci è dato saperlo, e forse questo è il mistero più grande del film.
Due curiosità: il ruolo di uno psichiatra, figura concreta e tranquillizzante grazie alle sue spiegazioni razionali, è affidato nel film a Ivan Rassimov, attore molto noto per la sua partecipazione a svariati horror-thriller del periodo; mentre nella scena della festa a casa di Dora ascoltiamo “Love Was The Magic”, canzone interpretata da Linda Lee, alias Rosanna Barbieri, ex componente dei Daniel Sentacruz Ensemble e corista per Keith Emerson in “Mater Tenebrarum”, il brano-simbolo del film di Dario Argento “Inferno”, a cui Bava collaborò.

Regia: Mario Bava; Soggetto: Lamberto Bava, Francesco Barbieri, Paolo Brighenti, Dardano Sacchetti; Sceneggiatura: Lamberto Bava, Francesco Barbieri, Paolo Brighenti, Dardano Sacchetti; Interpreti: Daria Nicolodi (Dora Baldini), John Steiner (Bruno), David Jr. Colin (Marco), Ivan Rassimov (Carlo), Nicola Salerno (Aldo, lo psichiatra); Fotografia: Alberto Spagnoli; Musica: I Libra; Costumi: Massimo Lentini; Scene: Francesco Vanorio; Montaggio: Roberto Sterbini; Suono: Pietro Spadoni, Pietro Spadoni; Produzione: Laser Film; Distribuzione: Titanus; censura: 70737 del 12-08-1977; Altri titoli: Beyond the Door II.

Recensione a cura di:
Mauro Fracchetti | Crea il tuo badge

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